giovedì 4 agosto 2011

La privatizzazione del mondo - No logo dieci anni dopo

No logo dieci anni dopo

di Naomi Klein (da Internazionale, n.906 del 15/07/2011)

La cultura delle multinazionali non governa solo i centri commerciali.
Detta legge a Washington e alla Casa Bianca. E ha creato un
presidente-marchio che produce gadget e false speranze. Il cambiamento
deve venire dal basso

 Nel maggio del 2009 la vodka Absolut ha lanciato una nuova serie
limitata: no label, senza etichetta. Kristina Hagbard, la responsabile
delle pubbliche relazioni dell’azienda, ha spiegato: “Per la prima
volta abbiamo il coraggio di affrontare il mondo completamente nudi.
Presentiamo una bottiglia senza etichetta e senza logo per veicolare
l’idea che l’aspetto esteriore non conta, l’importante è il
contenuto”.
Qualche mese dopo anche la catena di caffetterie Starbucks ha
inaugurato il suo primo negozio senza marchio a Seattle, chiamandolo
15th Avenue E Coffee and Tea.

Questo “Starbucks nascosto”, come lo chiamavano tutti, era arredato in
uno stile “originale e unico”. I clienti erano invitati a portare la
loro musica preferita da trasmettere nel locale e a far conoscere le
cause sociali a cui tenevano di più: tutto per contribuire a creare
quella che l’azienda ha definito “una personalità collettiva”. I
clienti dovevano sforzarsi per riuscire a trovare la scritta in
piccolo sui menù: “Un’idea di Starbucks”. Tim Pfeiffer, uno dei
vicepresidenti dell’azienda, ha spiegato che, a differenza dello
Starbucks che occupava prima gli stessi locali, quello era “proprio un
piccolo caffè di quartiere”. Dopo che per vent’anni aveva cercato di
mettere il suo logo su sedicimila punti vendita in tutto il mondo,
Starbucks stava cercando di sfuggire al suo marchio.

Sono passati dieci anni da quando ho scritto No logo: nel frattempo le
tecniche di branding sono cambiate e si sono evolute, ma ho scritto
molto poco su questi cambiamenti. Il perché l’ho capito leggendo il
romanzo di William Gibson L’accademia dei sogni. La protagonista,
Cayce Pollard, è allergica ai marchi, in particolare a Tommy Hilfiger
e all’omino Michelin. Questa “insofferenza morbosa e a volte violenta
alla semiotica del mercato” è così forte che Cayce fa raschiare i
bottoni dei suoi jeans Levi’s per cancellare il logo.

Quando ho letto queste parole, ho capito subito di soffrire della
stessa malattia di Cayce. Non è un disturbo congenito, ma una malattia
che insorge con il tempo a causa di una sovraesposizione prolungata.
Da bambina e da adolescente ero attratta dai marchi in modo quasi
ossessivo. Ma per scrivere No logo mi sono immersa completamente nella
cultura della pubblicità per quattro anni: quattro anni passati a
studiare gli spot del Super bowl, a sfogliare Advertising Age in cerca
delle ultime idee per migliorare le sinergie aziendali, a leggere
deprimenti libri di marketing sul valore del personal brand, a
frequentare seminari aziendali e a girare per le Niketown e i centri
commerciali.

Per certi versi è stato divertente. Ma alla fine mi sembrava di aver
varcato una soglia e, come Cayce, ho sviluppato una specie di allergia
ai marchi. I marchi hanno perso gran parte del loro fascino ai miei
occhi, ed è stato un bene perché, quando No logo è diventato un
bestseller, se avessi bevuto una Diet Coke in pubblico sarei finita
subito nella rubrica di gossip di qualche quotidiano locale.

L’insofferenza si è estesa anche al marchio che io stessa avevo
involontariamente creato: No logo. Dopo aver studiato marchi come Nike
e Starbucks, conoscevo bene le tecniche del brand management: trovare
il messaggio, brevettarlo, proteggerlo e ripeterlo fino alla nausea
facendo interagire mezzi di comunicazione diversi. Ho deciso di
infrangere queste regole ogni volta che mi si presentava l’occasione.
Ho rifiutato le offerte per alcuni progetti basati su No logo (un
lungometraggio, una serie tv, una linea di abbigliamento) e gli inviti
delle multinazionali e delle agenzie pubblicitarie a tenere seminari
sull’odio contro le multinazionali (stavo imparando che si può
costruire una carriera sul personaggio della dominatrice sadomaso
antiaziendalista, e far felici i manager strapagati spiegandogli
quanto sono cattivi). Contro il parere di tante persone, sono rimasta
fedele al proposito di non registrare il titolo del libro come un
marchio (non ho percepito diritti d’autore dalla linea di prodotti
alimentari italiani No logo, ma mi hanno mandato del delizioso olio
d’oliva in omaggio).

Il programma di disintossicazione a cui mi sono sottoposta si può
riassumere in due parole: cambiare argomento. Quando non era ancora
passato un anno dall’uscita di No logo, ho smesso di parlare di
marchi. Nelle interviste e negli incontri pubblici, invece di
discutere delle ultime frontiere del marketing virale e del nuovo
superstore di Prada, parlavo del movimento di resistenza al dominio
delle multinazionali che si era fatto conoscere in tutto il mondo
protestando contro l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) a
Seattle. “Ma non sei un marchio anche tu?”, mi chiedevano i
giornalisti furbi. “È probabile”, rispondevo io. “Ma mi sforzo di
essere un pessimo marchio”.

Cambiare argomento – passare dai marchi alla politica – non è stato un
grande sacrificio, perché era stata la politica a farmi avvicinare al
marketing. I miei primi articoli denunciavano le scarse opportunità di
lavoro per me e per i miei coetanei, la diffusione dei contratti a
breve termine e lo sfruttamento della manodopera per produrre la merce
che ci viene venduta. Da brava “giovane opinionista”, denunciavo il
modo in cui la cultura del marketing si espandeva anche fuori dalle
aziende in luoghi un tempo protetti come le scuole, i musei e i
parchi. Intanto le idee e le parole d’ordine che io e i miei compagni
consideravamo radicali venivano assorbiti nelle nuove campagne
pubblicitarie della Nike, di Benetton e della Apple.

Imprese vuote

Ho deciso di scrivere No logo quando mi sono resa conto che queste
tendenze apparentemente distinte erano unite da un’idea: che le
aziende debbano sfornare marchi, non prodotti. Era l’epoca in cui gli
amministratori delegati avevano improvvise intuizioni: la Nike non è
un’azienda che produce scarpe da ginnastica, ma l’idea della
trascendenza attraverso lo sport. Starbucks non è una catena di
caffetterie, è l’idea di comunità. Ma qui sul pianeta Terra, queste
intuizioni hanno avuto conseguenze concrete.

Molte aziende che prima producevano nelle loro fabbriche e avevano
tanti dipendenti a tempo indeterminato sono passate al modello Nike:
hanno chiuso le fabbriche, affidato la produzione a una rete di
appaltatori e subappaltatori e hanno investito nel design e nel
marketing necessari a diffondere il più possibile la loro grande idea.
Altre aziende hanno scelto invece il modello Microsoft: conservare un
nucleo strettamente controllato di azionisti-dipendenti che gestiscono
“l’attività centrale” dell’azienda ed esternalizzare tutto il resto,
dalla gestione della posta alla scrittura del codice informatico,
affidandolo a lavoratori precari. Alcuni le hanno chiamate hollow
corporations, imprese vuote, perché queste aziende ristrutturate
sembravano avere un unico obiettivo: trascendere il mondo fisico per
trasformarsi in un marchio incorporeo. Come ha detto l’esperto di
gestione aziendale Tom Peters: “È da stupidi possedere cose!”.

Mi piaceva studiare i marchi come Nike o Starbucks perché in un attimo
ti ritrovavi a parlare di tutto tranne che di marketing: la
deregolamentazione della produzione globale, l’agricoltura
industriale, i prezzi delle materie prime. E da qui arrivavi al legame
tra politica e denaro, che si era cementato in regole da far west
grazie a una serie di accordi di libero scambio e al sostegno della
Wto, al punto che attenersi a quelle regole è diventato il requisito
indispensabile per ricevere i prestiti dal Fondo monetario
internazionale. In poche parole, finivi per parlare di come funziona
il mondo.

Il governo all’asta

Quando è uscito No logo, il movimento si era già schierato davanti ai
cancelli delle istituzioni che diffondevano il corporativismo nel
mondo. Migliaia di dimostranti protestavano fuori dai summit sul
commercio internazionale e dalle riunioni del G8, a Seattle come a
Nuova Delhi, e in molti casi riuscivano a fermare sul nascere i nuovi
accordi. Quello che i mezzi d’informazione istituzionali continuavano
a definire “il movimento contro la globalizzazione” non era niente del
genere. L’ala riformista del movimento si opponeva alle grandi
aziende, l’ala radicale era anticapitalista. Ma a renderlo unico era
l’insistenza sull’internazionalismo. Tutto questo per dire che mentre
facevo il tour promozionale del libro c’erano cose più interessanti
dei loghi di cui parlare: per esempio da dove veniva quel movimento,
cosa voleva e se esistevano alternative a quella spietata difesa di
interessi particolari che andava sotto l’innocuo pseudonimo di
“globalizzazione”.

Negli ultimi anni, tuttavia, mi sono ritrovata a fare una cosa che
avevo giurato di non fare più: rileggere i grandi esperti di branding
citati nel mio libro. Mi sono serviti per capire cosa stava succedendo
non nei centri commerciali, ma alla Casa Bianca, sia durante la
presidenza di George W. Bush sia oggi con Barack Obama, il primo
presidente statunitense che è anche un supermarchio.

Gli anni di Bush sono stati odiosi e violenti per molti motivi: le
invasioni, le guerre, la difesa di metodi violenti come la tortura, il
tracollo dell’economia globale. Ma l’eredità più pesante lasciata
dall’amministrazione Bush è il modo in cui ha sistematicamente fatto
al governo statunitense quello che i dirigenti fissati con il branding
avevano fatto alle loro aziende dieci anni prima: l’ha svuotato,
assegnando al settore privato molte funzioni essenziali, dalla difesa
dei confini alla protezione civile all’intelligence. Questo
svuotamento non è stato un progetto secondario dell’amministrazione
Bush, ma una missione centrale, che ha riguardato ogni ambito della
sfera governativa. E anche se il clan di Bush è stato spesso preso in
giro per la sua incompetenza, l’impresa di mettere all’asta lo stato,
riducendolo a un guscio vuoto – o a un marchio – è stata condotta con
un impegno e una dedizione straordinari.

Oggi molti servizi fondamentali sono forniti dalla Lockheed Martin, la
più grande azienda privata del mondo nel settore della difesa. “La
Lockheed Martin non governa gli Stati Uniti”, scriveva il New York
Times nel 2004, “ma contribuisce a governarne una percentuale enorme.
Smista la vostra corrispondenza e calcola le tasse che dovete pagare.
Stacca gli assegni di previdenza sociale e organizza il censimento.
Gestisce i voli spaziali e controlla il traffico aereo. Per fare tutto
questo, scrive più codice informatico della Microsoft”.

Nessuno si è impegnato con più zelo a mettere all’asta il governo
degli Stati Uniti del tanto vituperato segretario di stato di Bush,
Donald Rumsfeld. Avendo lavorato per più di vent’anni nel settore
privato, Rumsfeld era imbevuto di cultura del branding e
dell’esternalizzazione. E aveva molto chiaro qual era il marchio che
il suo dipartimento doveva promuovere: il dominio globale. La
competenza chiave era combattere. Per tutto il resto, diceva Rumsfeld
con un tono che lo faceva somigliare a Bill Gates, “dobbiamo cercare
fornitori che implementino le attività secondarie”.

Questa visione radicale è stata sperimentata in Iraq durante
l’occupazione statunitense. Fin dall’inizio Rumsfeld ha pianificato la
dislocazione delle truppe come un vicepresidente di Walmart che cerca
di risparmiare sul personale. I generali volevano 500mila soldati, lui
ne offriva 200mila, con i contractor e i riservisti a colmare le
lacune secondo necessità. Seguiva la filosofia industriale del just in
time: produrre solo quello che è già stato venduto o che si venderà
immediatamente. Nella pratica, mentre la situazione irachena sfuggiva
al controllo degli Stati Uniti, l’industria privata della guerra
cresceva sempre di più per sostenere un esercito ridotto all’osso.

La Blackwater, che originariamente doveva limitarsi a fornire guardie
del corpo al diplomatico statunitense Paul Bremer, presto si è assunta
altri compiti, compresa una battaglia contro l’esercito del Mahdi nel
2004. Quando la guerra si è spostata nelle prigioni, piene di migliaia
di iracheni rastrellati dai soldati americani, i contractor si sono
occupati di interrogare i prigionieri, e in alcuni casi sono stati
accusati di torture. Nel frattempo, la gigantesca Green zone era
amministrata dalla Halliburton come una città-stato aziendale. Se la
Nike e la Microsoft sono state le prime imprese vuote, la guerra in
Iraq in molti sensi è stata una guerra vuota. E quando uno degli
appaltatori ha commesso un errore grave – per esempio quando nel 2007
gli uomini della Blackwater hanno aperto il fuoco in piazza Nisour a
Baghdad uccidendo diciassette civili – l’amministrazione Bush, come
tante imprese vuote prima di lei, ha potuto negare ogni
responsabilità, scaricando la colpa sui contractor. La Blackwater, la
Disney delle compagnie mercenarie, aveva perfino la sua linea di abiti
e orsacchiotti con il logo. E sapete come ha risposto agli scandali?
Con un rebranding. Oggi si chiama Xe Services.

L’America rinata

L’amministrazione Bush ha deciso di imitare le imprese vuote, che
tanto ammirava, anche nel modo di reagire alla rabbia suscitata in
giro per il mondo. Invece di cambiare davvero la sua politica, o anche
solo di aggiustare il tiro, ha lanciato una serie di sfortunate
campagne per un rebranding degli Stati Uniti di fronte a un mondo
sempre più ostile.

Osservando quegli imbarazzanti tentativi, mi sono persuasa che avesse
ragione Price Floyd, l’ex direttore dell’ufficio stampa del
dipartimento di stato. Dopo essersi dimesso per la frustrazione, Floyd
ha dichiarato che gli Stati Uniti erano il bersaglio di tanta rabbia
non a causa di una campagna di comunicazione sbagliata, ma a causa di
una politica sbagliata. “Partecipavo a riunioni con altri funzionari
del dipartimento di stato e della Casa Bianca”, ha raccontato Floyd al
magazine online Slate. “Dicevano: ‘Dobbiamo dare più visibilità ai
nostri sui mezzi d’informazione’. Io ribattevo: ‘Il problema non è
l’apparenza, ma la sostanza’”. Una potenza imperialista non è come un
hamburger o una scarpa da jogging. Il problema dell’America non era il
marchio, ma il prodotto. Un tempo la pensavo così, ma a un certo punto
ho pensato che forse mi ero sbagliata.

Quando Barack Obama è diventato presidente, il marchio statunitense
era ai minimi storici: Bush era per il suo paese quello che la New
Coke era per la Coca-Cola, o quello che il cianuro era stato per il
Tylenol. Eppure Obama, con una delle campagne di rebranding più
efficaci della storia, è riuscito a invertire la tendenza. Kevin
Roberts, l’amministratore delegato della Saatchi & Saatchi, ha voluto
illustrare graficamente quello che il nuovo presidente rappresentava.
In un’immagine a tutta pagina pubblicata sulla rivista patinata Paper
Magazine, ha messo la statua della libertà a gambe aperte che
partorisce Barack Obama. L’America rinata.

Sembrava che il governo degli Stati Uniti potesse risolvere i suoi
problemi di reputazione con il branding: servivano solo una buona
campagna promozionale e un testimonial abbastanza giovane e alla moda
per riuscire a competere nel difficile mercato del momento. E il
testimonial è stato trovato in Barack Obama, un uomo dotato di un
istinto naturale per il marketing, che si è circondato di una squadra
di grandi esperti di pubblicità.

Come coordinatore della sua campagna sui social network ha scelto
Chris Hughes, uno dei fondatori di Facebook. E come responsabile degli
eventi sociali della Casa Bianca ha preso Desirée Rogers,
un’affascinante laureata in gestione d’impresa ad Harvard ed ex
responsabile del marketing di alcune aziende private. David Axelrod,
il principale consigliere di Obama, è stato socio della Ask Public
Strategies, una società di pubbliche relazioni che ha organizzato
campagne per aziende come Cablevision e At&t.

Questa squadra di consulenti ha sfruttato tutte le risorse del moderno
arsenale del marketing per lanciare e far crescere il marchio Obama:
un logo perfettamente calibrato (un sole che sorge sopra la bandiera a
stelle e strisce); un uso attento del marketing virale (suonerie a
tema Obama); il product placement (spot a favore di Obama nei
videogiochi); uno spot tv da trenta minuti (che rischiava di apparire
melenso, ma che invece è stato definito da tutti “autentico”); e
alleanze strategiche con altri marchi (Oprah Winfrey per ampliare al
massimo il bacino d’ascolto, la famiglia Kennedy per darsi un tono
serio; e un mucchio di star dell’hip-hop per costruirsi un’immagine al
passo con i tempi).

Quando ho visto per la prima volta il video di Yes we can, quello
prodotto da will.i.am (il cantante dei Black Eyed Peas), in cui alcune
celebrità parlano e cantano sul sottofondo di un discorso di Obama in
stile Martin Luther King, ho pensato: ecco finalmente un politico che
trasmette in tv uno spot fico come quello della Nike. Le agenzie
pubblicitarie erano d’accordo con me. Poche settimane prima di vincere
le elezioni, Obama ha battuto la Nike, la Apple, la Coors e la Zappos
aggiudicandosi il premio dell’Associazione nazionale dei pubblicitari.
Di sicuro è stata una svolta. Negli anni novanta i grandi marchi
rubavano completamente la scena alla politica, oggi le aziende fanno a
gara per salire sul carro di Obama – basta pensare alla campagna
Choose change (scegli il cambiamento) della Pepsi-Cola, allo slogan
Embrace change (accogli il cambiamento) dell’Ikea e ai biglietti Yes
you can offerti dalle linee aeree Southwest.

In effetti, ogni cosa sfiorata da Obama o dalla sua famiglia si
trasforma in oro. Il valore di mercato della J.Crew è cresciuto del
200 per cento nei primi sei mesi della presidenza Obama, anche grazie
alla nota predilezione di Michelle per quel marchio di abbigliamento.
La passione di Obama per il Blackberry ha fruttato vantaggi simili al
produttore Research In Motion. Il modo più sicuro per vendere giornali
e riviste in questi tempi difficili è mettere Obama in copertina, e
per vendere a quindici dollari un cocktail a base di vodka e succo di
frutta basta chiamarlo Obamapolitan o Barackatini.

Secondo la rivista Portfolio, a febbraio del 2009 la “Obama economy” –
il turismo generato dal presidente e i gadget a lui ispirati – valeva
2,5 miliardi di dollari. Niente male, in piena crisi economica.
Desirée Rogers si è messa nei guai con alcuni colleghi quando ha
parlato con troppa franchezza al Wall Street Journal: “Abbiamo il
marchio migliore del mondo: il marchio Obama”, ha detto. “Le nostre
possibilità sono infinite”.

Bush aveva usato il suo ranch di Crawford, in Texas, come fondale per
la sua interpretazione del Marlboro Man, che passa il tempo a
sfrondare cespugli e a preparare barbecue con gli stivali da cowboy ai
piedi. Obama si è spinto molto più in là, trasformando la Casa Bianca
in una specie di reality show senza fine che ha per protagonista
l’adorabile clan Obama. Anche questo ha a che fare con la mania per il
branding, quella esplosa a metà degli anni novanta, quando gli esperti
di marketing si sono stancati dei limiti della pubblicità tradizionale
e hanno cominciato a creare “esperienze” tridimensionali: dei templi
delle griffe dove i clienti potevano esplorare la personalità dei loro
marchi preferiti. Desirée Rogers somigliava molto a quei guru quando
ha definito la Casa Bianca il “fiore all’occhiello” del marchio Obama,
uno spazio fisico in cui il governo può incarnare i valori di
trasparenza, innovazione e diversità che hanno portato alle urne tanti
elettori.

La Coca-Cola e la tisana

Il problema non è che Obama usa gli stessi trucchi dei grandi marchi.
Oggi chiunque voglia influenzare la società deve farlo. Il problema è
che, come è successo prima di lui a tanti altri marchi legati agli
stili di vita, quello che fa non è minimamente all’altezza delle
aspettative. È presto per emettere un verdetto sulla sua presidenza,
ma sappiamo questo: Obama preferisce sempre il gesto simbolico
grandioso al cambiamento strutturale profondo.

Annuncia a gran voce che chiuderà Guantanamo e intanto dà il via
libera all’allargamento del carcere di Bagram in Afghanistan e si
oppone ai processi contro i funzionari di Bush che autorizzarono le
torture. Nomina la prima giudice latinoamericana alla corte suprema e
intanto fa approvare un nuovo giro di vite sull’immigrazione. Investe
nell’energia pulita ma appoggia la favola del “carbone pulito” e
rifiuta di tassare le emissioni di CO2, l’unico metodo davvero valido
per ridurre il consumo di carburanti fossili. Si scaglia contro
l’avidità dei banchieri e affida le redini dell’economia a veterani di
Wall street. E, soprattutto, promette di mettere fine alla guerra in
Iraq, mandando in pensione l’orrendo concetto di “guerra al terrore ”,
mentre in Afghanistan e in Pakistan i conflitti ispirati da quella
logica s’intensificano.

Questa predilezione per i simboli a scapito della sostanza, e la
riluttanza a tenere fede a un’etica cristallina quando questa comporta
scelte impopolari, sono i punti su cui Obama si allontana decisamente
dai movimenti politici rivoluzionari a cui tanto si è ispirato (i
poster di pop art che ha preso dal Che, il modo di parlare alla Martin
Luther King, lo slogan yes we can che richiama il Sí, se puede degli
agricoltori immigrati). Le richieste di quei movimenti erano molto
chiare: la distribuzione delle terre, l’aumento dei salari, programmi
sociali ambiziosi. Quelle richieste avevano costi elevati, e per
questo i movimenti avevano non solo militanti convinti ma anche nemici
agguerriti.

Invece Obama, a differenza non solo dei movimenti ma anche di
presidenti innovatori come Franklin D. Roosevelt, segue la logica del
marketing: offrire uno schermo invitante su cui ognuno è chiamato a
proiettare i suoi desideri più profondi, e farlo in modo abbastanza
vago da non lasciare indietro nessuno, a parte i più radicali (che
peraltro sono un segmento non irrilevante di popolazione negli Stati
Uniti). Advertising Age aveva ragione quando scriveva che il marchio
Obama “è grande abbastanza da poter rappresentare qualunque cosa, ma
anche abbastanza personale da guadagnarsi il sostegno di chiunque”. E
poi, la lode più sperticata: “Obama è riuscito, chissà come, a essere
sia una Coca-Cola sia una tisana naturale: è un megamarchio conosciuto
e distribuito in tutto il mondo e allo stesso tempo un outsider che si
è fatto da solo”.

In altri termini: Obama ha interpretato il ruolo del guastafeste
pacifista e nemico di Wall street agli occhi della sua base. L’ha
fatta sentire protagonista di una rivolta contro il monopolio politico
dei due grandi partiti americani condotta grazie a un’organizzazione
perfetta e a colpi di donazioni raccolte vendendo limonata e
racimolando spiccioli tra i cuscini del divano. Contemporaneamente, ha
preso più soldi da Wall street di qualsiasi altro candidato alla
presidenza. Dopo aver sconfitto Hillary Clinton, prima ha divorato in
un sol boccone la dirigenza del partito democratico e poi, una volta
insediato alla Casa Bianca, ha imboccato la strada del dialogo con i
fanatici repubblicani.

Le regole del gioco

Il fatto che Obama non si sia rivelato all’altezza del suo nobile
marchio lo ha danneggiato? All’inizio no. Cinque mesi dopo l’ingresso
di Obama alla Casa Bianca il Pew’s global attitudes project ha chiesto
a un campione significativo di persone in tutto il mondo se pensavano
che Obama avrebbe fatto “la cosa giusta in politica estera ”. Anche se
c’erano già molti indizi del fatto che Obama stava proseguendo sulla
linea di Bush (con uno stile meno arrogante), la maggioranza degli
intervistati approvava le scelte di Obama: in Giordania e in Egitto la
percentuale di consensi era quattro volte superiore a quella dell’era
Bush. In Europa l’inversione di rotta era drastica: il 91 per cento
degli intervistati francesi e l’86 per cento dei britannici aveva
fiducia nelle scelte di Obama, rispetto al 13 e 16 per cento dell’era
Bush. Secondo Usa Today, il sondaggio dimostrava che “Obama ha
restituito credibilità all’immagine degli Stati Uniti dopo otto anni
di amministrazione Bush”. Secondo David Axelrod era successa una cosa
molto semplice: l’antiamericanismo non andava più di moda.

Questo era sicuramente vero, e ha avuto conseguenze molto concrete.
Obama è stato eletto – e il mondo si è innamorato della sua nuova
America – in un momento cruciale. Nei due mesi prima delle elezioni,
la colpa della crisi finanziaria che scuoteva i mercati mondiali
veniva giustamente attribuita non solo alle cattive scommesse di Wall
street, ma all’intero modello economico di deregolamentazione e
privatizzazione (chiamato “neoliberismo” in gran parte del mondo) che
era stato osannato da istituzioni controllate dagli Stati Uniti, come
il Fondo monetario internazionale e la Wto.

Se gli Stati Uniti non fossero stati guidati da una superstar globale,
il loro prestigio avrebbe continuato a colare a picco, e la rabbia nei
confronti del modello economico responsabile della crisi globale si
sarebbe probabilmente trasformata nella richiesta pressante di nuove
regole per imbrigliare (e tassare sul serio) la finanza speculativa.

Quelle regole avrebbero dovuto essere all’ordine del giorno
all’incontro del G20 a Londra nell’aprile del 2009, nel pieno della
crisi economica. Invece, mentre i giornalisti erano impegnati a
riferire gli avvistamenti della coppia Obama, i leader mondiali si
mettevano d’accordo per tirare fuori dalla crisi il Fondo monetario
internazionale – uno dei principali colpevoli di quei guai – con
finanziamenti per quasi mille miliardi di dollari. In poche parole,
Obama non ha solo restaurato l’immagine degli Stati Uniti, ha anche
resuscitato quel progetto economico neoliberista che aveva già un
piede nella fossa. Solo Obama, a torto considerato un nuovo Roosevelt,
poteva riuscire in quest’impresa.

Eppure, rileggere No logo dopo dieci anni ci ricorda anche che il
successo nel branding può essere effimero, e che nulla è più
transitorio della moda. Molti grandi marchi e personaggi griffati che
fino a poco tempo fa sembravano intramontabili, oggi appaiono sbiaditi
o sono in piena crisi. Il marchio Obama potrebbe fare la stessa fine.

Certo, molte persone hanno sostenuto Obama solo per motivi strategici:
era il candidato migliore per cacciare i repubblicani dal governo. Ma
cosa succederà quando le folle dei fedelissimi di Obama si renderanno
conto di aver donato il cuore non a un movimento che condivideva i
loro valori più profondi, ma a un partito sottomesso a interessi
particolari, che si preoccupa più dei profitti delle aziende
farmaceutiche che di creare un sistema sanitario sostenibile, che
tutela Wall street e le sue bolle finanziarie invece dei milioni di
cittadini che avrebbero potuto salvare la casa e il posto di lavoro
con una ricapitalizzazione più prudente?

Il rischio – ed è un rischio reale – è che la reazione sia un’ondata
di profondo cinismo, soprattutto tra i più giovani, per i quali la
campagna elettorale di Obama è stata il primo assaggio della politica.
Più che cambiare partito, la maggior parte di loro farà quello che
hanno sempre fatto i giovani durante le elezioni: restare a casa e
infischiarsene. Nella migliore delle ipotesi, l’obamamania finirà per
diventare quella che i consulenti del presidente chiamano
“un’occasione per imparare”. Obama è un politico di talento, molto
intelligente e più interessato alla giustizia sociale di ogni altro
leader democratico nella storia recente. Se non riesce a cambiare il
sistema per mantenere le sue promesse elettorali, è perché il sistema
stesso è marcio.

Era di questo che discutevamo in quel breve periodo tra le proteste
contro la Wto a Seattle, nel novembre 1999, e l’inizio della
cosiddetta guerra al terrore. Forse era un suo limite, ma il movimento
che i mezzi d’informazione insistevano a chiamare “noglobal” si
preoccupava poco dei partiti. La nostra attenzione era focalizzata
sulle regole del gioco e su come erano state distorte per servire gli
interessi delle grandi aziende a tutti i livelli: dagli accordi
internazionali sul libero mercato a quelli locali per la
privatizzazione dell’acqua. Quello che apprezzavo di più era la
spudorata secchionaggine di tutti noi.

Nei due anni successivi alla pubblicazione di No logo ho partecipato a
decine di conferenze e incontri, a volte con migliaia di persone
(decine di migliaia, nel caso del World social forum) che avevano
l’obiettivo di informare l’opinione pubblica sui meccanismi della
finanza e del mercato globale. Era come se all’improvviso le persone
avessero capito che raccogliere quelle informazioni era cruciale per
la sopravvivenza non solo della democrazia, ma del pianeta. Sì, era
complicato, ma accettavamo questa complessità perché finalmente
potevamo studiare dei sistemi, non solo dei simboli.

Richieste concrete

In certe parti del mondo, in particolare in America Latina, quel
movimento si è diffuso e rafforzato. In alcuni paesi è diventato
talmente forte che ha fatto accordi con i partiti, vincendo le
elezioni e avviando la creazione di un sistema regionale di commercio
equo. Ma altrove, e sicuramente negli Stati Uniti, il movimento è
stato annientato dall’11 settembre. È stato come se avessimo
dimenticato quello che sapevamo sulla complessità del corporativismo
globale: cioè che tutte le ingiustizie del mondo non possono essere
colpa di un solo partito di destra o di una sola nazione, per quanto
potente.

Se mai c’è stato un momento giusto per ricordare le lezioni che
abbiamo imparato alla svolta del millennio, quel momento è ora. Una
conseguenza positiva dell’impossibilità di regolare la finanza
internazionale, anche dopo il suo catastrofico collasso, è che il
modello economico dominante si è rivelato per quello che è: non un
“libero mercato”, ma un “capitalismo clientelare”, in cui i politici
cedono a dei privati la ricchezza pubblica in cambio del loro
sostegno. Quello che prima era tenuto discretamente nascosto è venuto
alla luce. Di conseguenza la rabbia dell’opinione pubblica per
l’avidità delle aziende ha raggiunto livelli altissimi. Molte idee che
gli attivisti dei movimenti gridavano nelle strade dieci anni fa, oggi
sono date per scontate nei talk show delle tv e negli editoriali dei
grandi quotidiani.

Eppure, oggi manca quello che dieci anni fa cominciava a emergere: un
movimento capace non solo di rispondere all’indignazione dei singoli,
ma anche di avanzare delle richieste concrete per un modello economico
più equo e sostenibile. Negli Stati Uniti e in molte parti d’Europa,
invece, la rabbia contro gli interessi particolari si esprime
attraverso i partiti di estrema destra e perfino con il neofascismo.

Personalmente, nulla di tutto questo mi fa sentire tradita da Barack
Obama. Provo piuttosto un sentimento ambivalente, simile a quello che
provavo nei confronti della Nike e della Apple quando hanno cominciato
a usare l’iconografia della rivoluzione nelle loro campagne
pubblicitarie. Dalle loro costose ricerche di mercato era emerso che
le persone desideravano qualcosa di più dello shopping: il cambiamento
sociale, lo spazio pubblico, l’eguaglianza, il diritto alla diversità.

Certo, i marchi hanno cercato di cavalcare quel desiderio solo per
vendere caffè e computer portatili. Eppure mi sembrava che noi di
sinistra, in un certo senso, dovevamo essere grati ai pubblicitari: le
nostre idee non erano antiquate come ci avevano detto. E poiché i
grandi marchi non avevano saputo esaudire i desideri profondi che
risvegliavano, ai movimenti sociali è venuta voglia di riprovarci.

Forse dovremmo pensare a Obama proprio in questi termini. Anche
stavolta, c’è una ricerca di mercato già bella e fatta. La vittoria di
Obama e l’entusiasmo per il suo marchio hanno dimostrato che c’è
un’enorme fame di cambiamento in senso democratico: moltissime persone
non vogliono conquistare i mercati con la forza delle armi,
disprezzano la tortura, credono nelle libertà civili, vogliono che le
aziende stiano fuori dalla politica, pensano che il riscaldamento
globale sia la grande battaglia del nostro tempo e vogliono far parte
di un progetto politico più grande.

Trasformazioni come queste si potranno ottenere solo quando i
movimenti avranno i numeri e la forza per pretendere delle risposte
dalle élite. Obama ha vinto le elezioni perché ha saputo sfruttare la
nostra profonda nostalgia per quei movimenti. Ma era solo un’eco, un
ricordo. Il nostro compito ora è costruire un movimento che sia – per
rubare un vecchio slogan alla Coca-Cola – the real thing, un vero
movimento. Come diceva Studs Terkel, un grande storico dell’oralità:
“La speranza non è mai discesa dall’alto, è sempre spuntata dal
basso”.

Naomi Klein è una giornalista canadese, nata a Montréal nel 1970.
Questo articolo è un estratto dell’introduzione alla nuova edizione di
No logo, pubblicata in Italia da Rizzoli. In Italia sono usciti anche
Recinti e finestre e Shock economy.

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