martedì 3 maggio 2011

H2o Turkish Connection: anteprima del documentario che delegittima il controllo sul bene che vale il respiro: acqua


Ci sono colori visibili solo per trasfusione empirica. Quella donata da Jaroslava Colajacomo, impegnata in questi giorni nell’anteprima del suo documentario “H2O Turkish Connection”, ha permesso di osservare un ponte lungo che collega l’illusione di un forum mondiale dell’acqua alla prossima concreta attuazione del referendum in Italia. L’ultimo forum, il quinto (la data si ripropone ogni tre anni, il prossimo si terrà a Marsiglia nel 2012), ci fu nel 2009 ad Istanbul. Un’organizzazione autoproclamatasi da grosse holding, meglio conosciute come multinazionali di acqua in bottiglia. Il documentario parte proprio con le immagini dei giorni del forum del 2009, con attivisti e liberi individui pronti a marciare fino al prossimo fantomatico forum. L’acqua come libero respiro è privata, nelle disquisizioni della sua gestione, di una pubblica partecipazione. Ad Istanbul il V forum s’è svolto all’interno di salde strutture imbellettate, il popolo, le persone preoccupate per il destino di un bene imprescindibile sono state confinate all’esterno, in strada, soli od in compagnia dei propri manifesti. Istanbul non è stata sede casuale del V forum mondiale dell’acqua. La Turchia è impegnata in un vero e proprio stravolgimento idrologico: costruzione di dighe. Quest’intenzionalità è già stata perpetuata, distruggendo la storia, la quotidianità ed il futuro di villaggi del Kurdistan turco, con l’edificazione di già undici dighe e la conseguente evacuazione di trecentocinquantamila persone. H2O Turkish Connection fa sgusciare la telecamera dalle discussioni private del forum, ai danni pubblici. Dal quartiere di Maden District, sobborgo d’Istanbul, nel quale l’acqua pubblica è solo quella che impuramente sgorga limitatamente dai monti, i tagli cinematografici passano fino ai posti nei quali il progetto GAP ha già impiantato il proprio volere (GAP Southeastern Anatolia Project, che per l’appunto è il progetto di costruzione delle dighe nel Kurdistan turco; 11 fin’ora realizzate, 22 secondo il piano; istallazioni di 19 centrali idroelettriche di cui 9 già costruite; 25 i miliardi stanziati, 20 già spesi; oltre i finanziamenti governativi della Turchia, dovevano esserci anche partenariati europei, su tutti Germania, Austria e Svizzera, poi tiratesi dietro per l’inadempienza a parametri sociali, culturali ed ambientali. Anche l’Italia con il gruppo bancario UNICREDIT doveva finanziare il progetto, poi s’è tirato fuori anch’esso. I prestiti al governo turco, che ha accusato i Paesi Europei di esser usciti dal finanziamento per ragioni politiche, sono stati erogati da due grosse banche: l’AKBANK e la GARANTI BANK). In Turchia il progetto è promosso in pompa magna, con scintillii di evoluzione, promesse di progresso energetico ed agrario. Nella sostanza le dighe aumentano di chilometri il livello d’acqua, sommergendo interi terreni ed abitazioni. Dunque stabilizza la dinamicità del fiume, rendendolo un immobile lago. Trattandosi d’acqua, quindi d’essenza vitale, s’annienta un intero sistema, che oltre a perdere zolle terriere, lascia estinguere anche animali non in grado di sopravvivere a quest’involuzione ciclica. Le immagini più forti di Jaroslava Colajacomo sono sicuramente riguardanti i villaggi del Kurdistan turco, i volti preoccupati di contadini che perdono la propria terra, ovvero le proprie ali vitali, la propria intera esistenza. La soluzione della diga volta ad incentivare la crescita agricola delle zone è fasulla, perché la chiusura del ciclo d’acqua aumenta la salinità del corso, il che è un problema per l’irrigazione dei campi. Andrebbe approfondita la guerra trentennale che coinvolge i curdi presenti in Turchia, con delegittimazioni di quest’etnia. La costruzione di queste dighe procura lo sgombero di territori occupati per la maggioranza da popolazione curda, creando una sorta di controllo su zone organizzate e sviluppate da curdi. Gestire correnti provenienti dal Tigre e dall’Eufrate, nati nel Kurdistan e non destinati alle popolazioni curde è paradosso ancor più bieco. Questa piaga però il documentario può solo sfiorarla, per concentrarsi sulla cruenta realtà di villaggi sommersi e zone prossime all’invasione d’acqua. La scelta registica è sublime quando si concentra sulle smorfie umane, che, oltre ogni logica ambientalista ed economista, palesano un disagio perenne: privazione del proprio territorio. Yukurai Loklu, zona schiava della diga Birecik, ha le proprie case sommerse o crollate, con contadini, nelle migliori delle situazioni, risarciti con somme simboliche, che non permettono la sopravvivenza ad intere famiglie e l’acquisto di nuove case. Molti si son dovuti trasferire in posti degradati, come ad esempio ex discariche, privi del loro più alto sapere: il lavoro della terra. Altro inquietante scenario è nelle conche di Hasankeyf, sempre nel Kurdistan turco, nella provincia di Batman. Qui dove c’è il luogo della nascita dell’uomo, con reperti archeologici di dodicimila anni ed il doppio delle più famose grotte della Kappadocia, si pensa d’innalzare  la diga di Ilisu, che alzerà il livello del mare  di 63 km, spazzando via l’83% della città. L’intuizione di H2O Turkish Connection è di focalizzarsi prima sull’assurdo presupposto del dominio delle multinazionali, che lasciano sorgenti prive di depurazioni, costringendo ad acquistare acqua in bottiglia e privando le amministrazioni locali del potere gestionale di un bene primario, poi di dimostrare le nefandezze di progetti intenzionati a gestire l’acqua, che, intaccandola, scuote un intero ecosistema. Così il documentario giunge sino alla più stretta contemporaneità, che in Italia si srotola nel prossimo referendum teso ad abrogare il decreto Ronchi (meglio denotato come provvedimento che privatizza la gestione dell’acqua in Italia). Insomma Jaroslava Colajacomo arriva a concepire la difesa genealogica dell’acqua come fondamentale, fissa il punto di partenza proprio dal referendum che si terrà in Italia. Si percepisce come la parte finale sia stata tagliata per l’enorme materiale ancora da elaborare e come i punti di una prima privatizzazione in Italia, avvenuta in Toscana, abbia portato disservizi, aumenti di costi e incomunicabilità con sedi di multinazionali troppo lontane dai singoli paesini assillati da problemi alla rete idrica. I passaggi musicali pregevoli del lavoro cinematografico (si passa da Nick Drake a Damien Rice, dai Massive Attack fino ai più popolari strumenti turchi) imprimono ancor di più l’ovvia emotività da rendere ad infiniti spunti di riflessioni, che debellano ogni tentativo di stretta affaristica su di un bene che non può sottostarsi a gestioni lontane dalla fondamentale conoscenza e cura territoriale. 
 
                                                                                                                                                    Lorenzo Giroffi

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